Cassazione – Sentenza 10 aprile 2012, n. 5676 – Licenziamento Illegittimo – Risarcimento del danno – Aliunde perceptum – Onere della prova a carico del datore – Fattispecie

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 25.8.09 la Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza 4.6.02 del Tribunale della stessa sede, dichiarava la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato per il periodo 11.11.98 – 31.1.99 tra S.F. e Poste Italiane S.p.A. e, per l’effetto, accertava l’esistenza d’un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dall’11.11.98 con condanna della società a pagare alla lavoratrice le retribuzione maturate dal 12.10.2000 (data della messa in mora dell’azienda ad opera della F. fino al 31.3.2002, oltre rivalutazione ed interessi.

Statuivano i giudici del gravame che l’illegittimità della proroga (fino al 31.3.99) del contratto comportava la nullità ab origine della clausola relativa al termine e che il conseguente risarcimento dovuto alla F. doveva essere contenuto in misura pari ai tre anni di retribuzione immediatamente successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, tenuto conto del tempo prevedibilmente occorrente per reperire una nuova occupazione.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre la lavoratrice affidandosi a dodici motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.

Resiste con controricorso Poste Italiane S.p.A., che spiega ricorso incidentale articolato in due motivi, cui a sua volta si oppone con controricorso la F.

Motivi della decisione

1- Preliminarmente ex art. 335 c.p.c. vanno riuniti i ricorsi perché entrambi aventi ad oggetto la medesima sentenza.

2- Per esigenze di mero ordine espositivo si esamina dapprima il ricorso incidentale.

Con il primo motivo di doglianza Poste Italiane S.p.A. deduce violazione degli artt. 23 legge n. 56/1987 e 8 CCNL 26.11.1994 nonché degli accordi sindacali 25.9.1997, 16.1.1998, 27.4.1998, 2.7.1998, 24.5.1999 e 18.1.2001, in connessione con gli artt. 1362 e ss. C.c. in ragione del fatto che i giudici d’appello avevano erroneamente ritenuto che l’esercizio del potere attribuito alle OO.SS.. dall’art. 23 legge n. 56/1987, di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro fosse stato convenzionalmente limitato dalle medesime OO.SS., riguardo all’ipotesi esaminata, fino al 30.4.1998, nonché per essersi l’impugnata sentenza fondata sostanzialmente sul pregiudizio che l’art. 23 della legge indicata non consentirebbe all’autonomia collettiva di costruire fattispecie legittimanti assunzioni a termine collegate a situazioni tipicamente aziendali e che non siano direttamente collegate ad occasioni precarie di lavoro.

Con il secondo motivo di censura la società deduce vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza ritiene che le parti collettive abbiano inteso fissare alla data ultima del 30.4.1998 il termine finale di efficacia dell’accordo integrativo del 25.9.1997.

Osserva questa S.C. – alla stregua della propria costante giurisprudenza – che il ricorso incidentale di Poste Italiane S.p.a. è infondato.

I giudici di merito hanno, infatti, individuato negli accordi attuativi del 1997 e 1998 l’imposizione di un termine finale di efficacia alla causale giustificativa dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro – di origine contrattuale collettiva (come consentilo dalla L. n. 56 del 1987, art. 23) – relativa alle esigenze legate alla ristrutturazione aziendale, rilevando che tale termine era scaduto il 30 aprile 1998 e, quindi, in data anteriore a quella dei contratti di lavoro esaminati. In proposito, va ricordato che, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema (cfr. Cass. S.U. n. 4588/06 e le successive conformi della sezione lavoro, tra le quali, ad esempio, Cass. n. 6913/09), l’art. 23 legge 28.2.1987 n. 56 ha operato una sorta di delega in bianco alla contrattazione collettiva ivi considerata, quanto all’individuazione di ipotesi ulteriori di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, sottratte pertanto a vincoli di conformazione derivanti dalla legge n. 230/1962 e soggette unicamente ai limiti e condizionamenti contrattualmente stabiliti. Siffatta individuazione di ipotesi aggiuntive può essere operata anche direttamente, attraverso l’accertamento da parte dei contraenti collettivi di determinate situazioni di fatto e la valutazione delle stesse come idonea causale del contratto a termine (cfr.. ad es., Cass. 20 aprile 2006 n. 9245 e 4 agosto 2008 n. 21063). Nel caso in esame, con l’accordo sindacale del 25.9.1997 era stata introdotta nel testo dell’art. 8, co. 2°, C.C.N.L. del 1994, quale ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro (oltre quelle originariamente previste ai sensi dell’art. 23 legge n. 56/87), quella di esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso.

Inoltre, in pari data, le medesime parti collettive avevano stipulato un accordo attuativo, col quale si davano atto che fino al 31.1.1998 l’impresa versava nelle condizioni legittimanti la stipula del contratto a termine per affrontare il processo di ristrutturazione e, con successivi accordi attuativi, avevano accertato che tali condizioni erano proseguite lino al 30.4.1998.

Orbene, con numerose sentenze questa Corte suprema (cfr., per tutte, Cass. 14.2.2004 n. 2866, 28.11.2008 n. 28450 e 20.3.2009 n. 6913), decidendo in ordine a fattispecie analoghe alla presente, coinvolgenti l’interpretazione delle norme contrattuali collettive indicate, ha ripetutamente confermato, con orientamento ormai consolidato, le decisioni dei giudici di merito che hanno dichiarato illegittimo il termine apposto dopo il 30.4.1998 a contratti di lavoro stipulati ai sensi dell’accordo integrativo del 25.9.1997.

Pur negando, in base all’autonomia delle ipotesi aggiuntive la cui previsione è affidata ai contraenti collettivi indicali, la necessità che quella di cui all’accordo in questione debba essere istituzionalmente contenuta in limiti temporali predeterminati, questa Corte ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di merito secondo cui. con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data e ai successivi accordi attuativi sottoscritti il 16.1.1998 e il 27.4.1998, le pani avevano convenuto di limitare il riconoscimento della sussistenza della situazione descritta nell’accordo integrativo unicamente fino al 31 gennaio e poi, fino al 30.4.98, per cui, per far fronte alle esigenze in tale sede indicate, l’impresa poteva procedere ad assunzioni di personale con contratto a tempo determinato unicamente fino al 30.4.1998, con la conseguente illegittimità dei contratti stipulati successivamente a tale data.

Da tali conclusioni non vi è ragione di discostarsi, in quanto le opposte valutazioni sviluppate nelle difese di Poste Italiane S.p.A. sono sorrette da argomenti ripetutamente scrutinati nelle molteplici occasioni ricordate e non sono tali da indurre ad un ripensamento del costante orientamento di questa S.C.

La decisione impugnata, relativa all’accertata illegittimità della clausola appositiva del termine ad un contratto di lavoro stipulato successivamente alla data del 30 aprile 1998, si sottrae pertanto alle censure svolte dalla ricorrente in via incidentale.

Restano assorbite tutte le ulteriori argomentazioni difensive svolte nel ricorso incidentale.

3- Con il ricorso principale la F. lamenta che i giudici d’appello, pur in assenza – a riguardo – di eccezioni od allegazioni in punto di fatto da parte di Poste Italiane S.p.A., hanno ridimensionato il risarcimento dei danni conseguente all’accertata illegittimità della clausola oppositiva del termine, riducendolo ai soli tre anni di retribuzione immediatamente successivi alla cessazione del rapporto di lavoro originariamente a tempo determinato, triennio entro il quale, ad avviso della Corte territoriale, la ricorrente avrebbe potuto trovare altra occupazione.

Tale censura viene fatta valere dalla F. sotto forma di:

1. violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. con il primo motivo:

2. vizio di motivazione con il secondo;

3. violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 c.c.. con il terzo;

4. violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. con il quarto;

5. violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 c.c. con il quinto;

6. violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c. con il sesto;

7. violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c.. con il settimo;

8. violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c.c. con l’ottavo;

9. violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. con il nono;

10. violazione e falsa applicazione dell’art. 1225 c.c. con il decimo;

11. violazione e falsa applicazione dell’art. 432 c.p.c con l’undicesimo;

12. violazione e falsa applicazione dell’art. 114 c.p.c. con il dodicesimo.

Il ricorso principale è fondato nei sensi appresso chiariti.

L’eccezione con la quale il datore di lavoro deduce che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito grazie ad una nuova occupazione, ovvero deduce la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte.

Pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi siano pacifici o dimostrati dall’esito di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche ove l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai tini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. S.U. 3.2.98 n. 1099).

Tuttavia, ai fini della sottrazione dell’aliunde percepitoti dalle retribuzioni dovute al lavoratore, è necessario che risulti la prova, da qualsiasi parte provenga, non solo del fatto che egli nel frattempo abbia trovato una nuova occupazione, ma anche di quanto abbia percepito, tale essendo il fatto idoneo a ridurre l’entità del danno (cfr., ad es., Cass. 5.4.04 n. 6668″).

In ogni caso, spetta al datore di lavoro il relativo onere probatorio, quantomeno in punto di negligenza del lavoratore nel cercare altra proficua occupazione (v.. fra le tante. Cass. 9.2.04 n. 2402 e 2.9.03 n. 12798).

Nel caso di specie – al contrario – l’impugnata sentenza ha ridotto il danno in base alla mera presunzione che in tre anni la lavoratrice avrebbe potuto trovare nuova idonea occupazione (assunto che non si basa, in realtà, su alcuna massima di comune esperienza) e che sarebbe stato onere dell’odierna ricorrente provare una fattiva cooperazione nella ricerca di un nuovo impiego, in tal modo trascurando la Corte territoriale che il dovere di cooperazione del creditore derivante dalla regola di correttezza posta dall’art. 1175 c.c. concerne la cooperazione nell’adempimento del debitore, non il dovere di attivarsi per ridurre le conseguenze risarcitone del già realizzatosi altrui inadempimento.

4- In conclusione, il ricorso incidentale è da rigettarsi, mentre va accolto quello principale; conseguentemente, la sentenza impugnata va cassata nei sensi di cui in motivazione con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

P.Q.M.

Riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso incidentale, accoglie quello principale nei sensi di cui in motivazione e cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.