Cassazione – Sentenza 23 gennaio 2015, n. 1262 Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Sindacabilità – Mobbing – Non sussiste

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 5.10.11 la Corte d’appello di Venezia – per quel che rileva nella presente sede – respingeva il gravame proposto da L.A. contro il rigetto, pronunciato dal Tribunale della stessa sede il 20.10.09, dell’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli il 29.9.03 da S. – Società M.M. S.p.A. (d’ora innanzi, più semplicemente, S.), mentre accoglieva la domanda di risarcimento del danno da dequalificazione sofferto dal lavoratore nel periodo 1°. 11.02 – 29.9.03. Confermava, invece, il rigetto della domanda di risarcimento dei danni da mobbing.
Per la cassazione della sentenza ricorre L.A. affidandosi ad un solo articolato motivo.
S. resiste con controricorso e a sua volta spiega ricorso incidentale basato su un solo motivo, cui resiste con controricorso L.A.

Motivi della decisione
1- Preliminarmente ex art. 335 c.p.c. si riuniscono i ricorsi in quanto aventi ad oggetto la medesima sentenza.
2- Con unico articolato mezzo il ricorso principale lamenta vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza, pur riconoscendo il demansionamento patito da L.A. (inquadrato nel 7° livello CCNL metalmeccanici), non ne ha però tenuto conto ai fini dell’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da mobbing e dell’impugnativa di licenziamento; in tal modo la Corte di merito – si sostiene in ricorso – ha trascurato che la dequalificazione professionale inferta al lavoratore e le trattenute retributive (la cui illegittimità era stata accertata già in prime cure) di per sé dimostravano il comportamento persecutorio posto in essere ai suoi danni da S e il carattere strumentale della soppressione del posto di lavoro (responsabile del nuovo Ufficio Marketing) cui il ricorrente era stato assegnato nel luglio 2003 (vale a dire appena due mesi prima del licenziamento): infatti – prosegue il ricorso – L.A. non aveva ricevuto le necessarie dotazioni di strumenti di lavoro informatici, il che lo aveva costretto a quella sostanziale inattività poi sanzionata dalla stessa Corte territoriale in termini di riconoscimento del danno da dequalificazione professionale.
3- Con unico mezzo il ricorso incidentale lamenta vizio di motivazione della gravata pronuncia nella parte in cui, pur riconoscendo che le nuove mansioni assegnate a L.A. come responsabile del nuovo Ufficio Marketing erano consone alla professionalità posseduta dal lavoratore, contraddittoriamente ha poi ravvisato una sostanziale riduzione quantitativa delle mansioni affidategli sol perché non gli era stato assegnato un computer. Deve quindi escludersi – conclude la ricorrente incidentale – che vi sia stato demansionamento alcuno.
4- Il ricorso principale è fondato nei sensi qui di seguito chiariti, mentre va disatteso quello incidentale perché risulta provato il demansionamento sofferto dal ricorrente principale, del che l’impugnata sentenza dà atto con motivazione immune da vizi logici o giuridici.
Infatti, per costante insegnamento giurisprudenziale di questa Corte Suprema, il divieto ex art. 2103 c.c. di variazioni in peius delle mansioni opera anche quando al lavoratore, pur nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori quanto a contenuto professionale.
Pertanto, nell’indagine circa l’esistenza o meno di un’equivalenza tra le vecchie e le nuove mansioni non basta il riferimento in astratto al livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze (cfr., ex aliis, Cass. n. 5798/13; Cass. n. 16190/07; Cass. n. 17351/05; Cass. n. 14666/04; Cass. n. 14150/02; Cass. n. 8577/99; Cass. n. 19775/97).
Ciò è coerente con la statuizione di Cass. S.U. n. 25033/06, secondo cui, in sintesi, il baricentro dell’art. 2103 c.c. è dato dalla protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro.
L’impugnata sentenza si è attenuta, sul punto, a tali consolidati principi giurisprudenziali, evidenziando che il ricorrente addirittura non è stato neppure messo in condizioni di espletare le nuove mansioni, che consistevano nella ricerca di potenziali clienti mediante navigazione in INTERNET, mansioni necessariamente da svolgersi disponendo almeno d’un computer.
La sentenza impugnata è, ancora, immune da vizi logico-giuridici nella parte in cui ha dato atto della mancanza di prova di situazioni di mobbing (o di “costrittività organizzative”, secondo la dizione contenuta nella circolare n. 71/2003 dell’INAIL).
Tale affermazione non è logicamente contraddittoria rispetto al demansionarnento accertato dai giudici di merito, noto essendo che potersi parlare di mobbing è necessaria una pluralità di condotte ostili, protrattesi nel tempo, tese ad emarginare il singolo lavoratore. Per l’esattezza, secondo la giurisprudenza di questa S.C. (cfr. Cass. n. 17698/14; Cass. n. 3785/09), affinché sia configurabile un mobbing devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità e/o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Non bastano, dunque, un demansionarnento e delle – seppur illegittime – trattenute retributive modeste (come tali giudicate in sede di merito).
È, invece, fondato il ricorso principale nella parte in cui lamenta vizio di motivazione in ordine all’effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Si muova dal rilievo che, sebbene non sia sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, nondimeno spetta al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, nel senso che ne risulti l’effettività e la non pretestuosità (cir., ex aliis, Cass. n. 7474/12; Cass. n. 24235/10; Cass. n. 21282/06; Cass. n. 21121/04).
Invece l’impugnata sentenza, lungi dall’accertare in concreto la genuinità della scelta aziendale, si è limitata a rilevarne l’insindacabilità nel merito, che è cosa ben diversa.
La Corte territoriale ha erroneamente ritenuto di doversi limitare ad una verifica meramente formale dell’avvenuta soppressione del nuovo Ufficio Marketing ed ha omesso di sottopone al doveroso vaglio giurisdizionale la mancanza di idonei mezzi di lavoro a disposizione dell’odierno ricorrente principale, unitamente al rilievo che il nuovo ufficio era stato costituito nel luglio 2003, cioè appena due mesi prima di essere soppresso e che L.A. aveva patito una dequalificazione professionale già a partire dal 1°.1 1.02 (circostanze che si leggono nella sentenza impugnata): si trattava di elementi presuntivi potenzialmente sintomatici del fatto che il nuovo ufficio fosse stato creato non affinché funzionasse, ma solo per poterlo chiudere poco dopo avervi adibito il lavoratore.
Sul punto è mancato qualunque apprezzamento che confermasse od escludesse il lamentato carattere strumentale della creazione e della successiva soppressione di tale nuovo ufficio e della mancata predisposizione in esso dei relativi mezzi di lavoro.
5- In conclusione, il ricorso principale è da accogliersi nei sensi sopra chiariti, mentre quello incidentale va interamente rigettato. Per l’effetto, si cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione, che dovrà accertare se, nel caso in oggetto, la creazione e la di poco successiva soppressione del nuovo Ufficio Marketing – cui era stato adibito L.A. – rispondesse ad un’effettiva e genuina esigenza aziendale oppure costituisse un’artificiosa modalità organizzativa finalizzata solo a collocare il dipendente in una posizione lavorativa ab origine destinata ad essere eliminata.

P.Q.M.
Riuniti i ricorsi, rigetta quello incidentale, accoglie quello principale nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Venezia in diversa composizione.