Cassazione – Sentenza 01 agosto 2016, n. 15982 – illegittimo il licenziamento della lavoratrice che in malattia lavora altrove

Svolgimento del processo

Si controverte del licenziamento intimato il 29/4/2008 dalla società P.I. s.p.a. ad E.D.V. per aver esercitato una continua attività lavorativa extra – aziendale presso il locale “C.M.R.” di Rho in periodo di assenza dal servizio per infortunio in “itinere” occorsole il 3/9/2007.

Con sentenza dell’11/12/2012 – 6/3/2013 la Corte d’appello di Milano, nell’accogliere l’impugnazione della lavoratrice, ha riformato la sentenza del primo giudice che aveva ritenuto legittimo il licenziamento ed ha ordinato la reintegra dell’appellante nel posto di lavoro con la conseguente condanna risarcitoria.

La Corte territoriale ha sostanzialmente ritenuto non provata la condotta addebitata alla D.V., cioè l’aver espletato un’attività lavorativa extra-aziendale atta ad impedire una sollecita guarigione, per cui doveva considerarsi insussistente la giusta causa del licenziamento.

Per la cassazione della sentenza ricorre la società P.I. s.p.a. con due motivi. Resiste con controricorso la D.V..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo, dedotto per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., la società ricorrente espone che, una volta dimostrata l’assenza della lavoratrice e l’espletamento, da parte della medesima, di attività esterna all’impresa nel periodo della assenza dal lavoro per infortunio, sarebbe spettato a quest’ultima provare la non incompatibilità dell’attività extra-aziendale col suo stato di malattia e coi prescritti riposi e cure, mentre, pur mancando una tale prova, la Corte d’appello aveva egualmente considerato le attività addebitate alla D.V. come compatibili col suo stato di salute.

Il motivo è infondato, non risultando dalla sentenza che la Corte di merito abbia violato i principi in materia di riparto degli oneri della prova.

Invero, dalla lettura della sentenza impugnata si evince agevolmente che la Corte d’appello ha tratto proprio dall’esame delle prove testimoniali offerte dalle stesse parti il convincimento sul fatto che non erano emersi elementi sufficienti a provare con certezza che la D.V. avesse effettivamente espletato, durante il periodo in cui era stata assente dal lavoro a seguito dell’infortunio subito il 3.9.07, attività lavorativa presso il ristorante del proprio compagno o che, comunque, avesse posto in essere attività tali da ritardare la relativa guarigione. A conforto del fatto che le condotte poste in essere dalla D.V. durante la sua permanenza serale nel ristorante del compagno non apparivano, in ogni caso, tali da comportare una violazione delle prescrizioni di riposo e di cure impartite dai certificati medici, non trattandosi di attività richiedenti particolari sforzi, né lunga permanenza in piedi, la Corte di merito ha richiamato il contenuto del parere medico – legale di dott. A.A., prodotto dall’appellante, dal quale risultava che il periodo di inabilità temporanea certificato dai sanitari era sovrapponibile a quello determinato da lesioni del tipo di quelle diagnosticate.

Trattasi, all’evidenza, di valutazioni del merito istruttorio adeguatamente motivate dalla Corte d’appello con argomentazioni che si rivelano esenti da vizi di ordine logicogiuridico e che sfuggono, pertanto, alle censure mosse dall’odierna ricorrente, non solo per quel concerne il predetto rilievo di legittimità sul riparto degli oneri probatori, ma anche per quel che riguarda l’accusa di supposta apoditticità delle affermazioni dei giudici d’appello in merito alla ritenuta compatibilità dell’attività svolta dalla D.V., oggetto di contestazione, con gli obblighi gravanti sulla medesima di non ostacolare il suo pieno recupero lavorativo.

In realtà quest’ultima censura attiene ad un preteso vizio della motivazione che non è riconducibile al motivo di doglianza in esame che è stato specificatamente proposto come vizio di violazione di legge, per cui sotto tale aspetto la doglianza è inammissibile.

2. Col secondo motivo la società ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1176, 1375, 2104, 2105 e 2119 cod. civ., contestando l’affermazione della Corte d’appello secondo cui la D.V. non aveva violato, con la propria condotta, gli obblighi di correttezza, diligenza e buona fede; nel contempo, la ricorrente manifesta il proprio dissenso sul fatto che l’attività lavorativa espletata dalla dipendente in favore di terzi ne! periodo di assenza per malattia non avesse pregiudicato il suo tempestivo rientro in servizio.

Il motivo è inammissibile in quanto la censura sull’asserita violazione delle norme di legge che contemplano il rispetto dei principi di buona fede, correttezza, diligenza e lealtà della parte tenuta all’adempimento della propria prestazione non contiene indicazioni specifiche sul modo in cui la Corte di merito si sarebbe in concreto discostata dall’interpretazione delle norme asseritamente mal interpretate ed applicate, finendo, in realtà, per tradursi in una rivisitazione non consentita del materiale probatorio già adeguatamente scrutinato dalla Corte territoriale, la quale è pervenuta, all’esito della predetta indagine come sopra riassunta, al convincimento, congruamente motivato ed immune da rilievi di legittimità, della insussistenza di elementi atti a far ritenere l’appellante responsabile della violazione dei predetti doveri di lavoratrice tenuta alla regolare ripresa del servizio, per cui la medesima non meritava la sanzione espulsiva inflittale.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico come da dispositivo, unitamente al contributo unificato di cui all’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3500,00 per compensi professionali e di € 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.